L’inverno è caduto di schianto (un bicchiere rotto).
Ti comprerò le calze a rete nere e gli stivali che hai visto di sotto
ma adesso mangiati l’hamburger, mi vieni magra come un’acciuga.
È tutta roba take away, menu veloce per gente in fuga.
Io non ti volevo mica, non ti volevo chiamare Sofia,
figlia di ballerina slava, cosce di rana della Bulgaria.
Figlia di una notte clandestina coi blues di Nag Hammadi,
la candela nella bottiglia, la voglia di perderti ai dadi…
Giocarti col cuoco turco che scommetteva sui cavalli al pub
e si faceva il culo tutto il giorno ad affettare lo shish kebab.
O l’impresario idiota che beveva caffè moka…
coltello per tagliar le carte, tagliar la corda, tagliare la coca
e colpire le mosche a mezz’aria, per farti divertire
ma tu ti ricordi appena, e adesso è ora che si va a dormire.
Hai la maglietta sporca di rossetto, vatti a lavare la faccia, Sofia
e smettila di urlare che passa sempre sotto qualche polizia.

Le luci son saltate tutte e fuori c’è ‘sta luna persa
così diversa dalla luna di neve, te li ricordi i tetti di Anversa.
No che non c’è l’acqua calda, Cristo, hai la fronte che scotta
attenta se cammini scalza che in bagno c’è la bottiglia rotta.

Adesso siamo segnalati, dormiamo male e poco
andiamo a letto quando c’è il black out e andiamo al cesso col coprifuoco.
E non mi fido più di niente e tanto meno dei giornali
perché la coda del serpente non lascia impronte digitali
e domani si ritorna in viaggio, le istruzioni sono nell’opuscolo,
autostrade di sonno e nebbia dove confondi alba e crepuscolo
e ti svegli all’improvviso con un clacson che grida,
lui grida e tu stavi sognando, cosa sognavi sul posto di guida?
Sognavi d’essere in una metropoli coi documenti pronti domani
e una pizzeria Bella Napoli gestita da profughi afgani.
Tu col bambolotto a passare la dogana;
il tuo peluche con il pancino pieno di segatura e di canapa indiana.
E domani è un altro business e tutti i business fanno male
perché le macchie di detersivo si cullano verso il mare.
Sì ma questa pensione di merda e quest’odore di lavanderia
e questa musica andata a male su tutti i “tàksi” della Turchia.

Albe ne ho viste tante (adesso butta il fumetto e spegni)…
c’era tua madre passo pesante perché inciampava negli ultimi sogni.
Erano loro che andavano via, lenti come gli assicuratori,
andavan giù con la marea, bassa marea degli ascensori
e un assegno sotto il piumone e odor di sigari nella stanza
e la finestra aperta sulla neve, per fare aria, aria e lontananza.

C’era la pioggia nelle stazioni, nelle stazioni di tutto il mondo,
c’era il salino nella valigia, nella valigia col doppiofondo.
Vendevo spazzole elettriche che servivano da vibratori
per le signore con il fuoco dentro, innamorate degli accessori.
Giravo città di confine piene di luci sul lungofiume,
i battelli con le orchestrine, il porto nafta e schiume.
Io coi piazzisti, io nei bar del molo
e i gabbiani che stavano urlando: “Un uomo in mare, un uomo solo”.
Quando non riesci più a vendere fumo perché ti cadono le parole
quando ti cadono come d’autunno, come d’autunno le donne sole
come tua madre che ballava nel fumo del night
e il grassone col tight che la voleva vestita da schiava…
Tua madre in una bisca, sola e nuda come un’allegoria
e tu vestita da odalisca che ci facevi la fotografia
e il grassone con gli anelli che ti faceva i complimenti
le passava gli alimenti e una mano nei capelli.

…Ma l’altro ieri quell’organetto… ma cosa ti sei fermata a sentire.
Potevamo guadagnare tempo (tempo!) ora che tutto è lì lì per finire.
Perché suonava della roba triste, faceva freddo e caldo come a Natale.
Il tuo collare falso d’ametiste sotto le reti dell’impianto stradale…
…che si spegnevano poco per volta, col coprifuoco, com’è regolare
che sopravvivere è proibito perché qualcuno si può fare male.
Può scivolare in mezzo agli odori dei ristoranti internazionali,
spaghetti al sugo, pollo tandoori, menu cinesi avvolti nei giornali
e giornali, e giornali sopra i vetri, sopra i vetri della stanza:
tu che li leggi con gli occhiali neri aspettando la Grande Ignoranza.
E la luna non la vedi, i cani l’han lasciata al buio;
non vedi dove metti i piedi fra un autoblindo e un colpo di rasoio.
E luci parassite di satelliti privati,
e ogni volta che cade un uomo si rialzano i mercati.
Adesso che tutto è spento, spegni anche tu la candela.
Non funziona il riscaldamento, vienimi addosso che qui si gela.
Le pulci saltano nella pensione, nel golpe delle notti,
saltano al cielo come i botti che festeggiano l’iniziazione
o che festeggiano la fine di una città che va sommersa
tra i frantumi delle vetrine, e questa luna, luna, luna persa, luna persa luna persa, persa, persa.